Vita delle forme

Scritti sull'arte

  • Pagine172
  • Prezzo22.00
  • Anno2024
  • ISBN9788882731960
  • NoteDi prossima pubblicazione
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Scritti sull'arte Tra genialità e acrobazie

Mancava, finora, all’ampio catalogo delle ricognizioni editoriali dedicate alla figura tanto singolare quanto decisiva di Jean Cocteau (1889-1963), poeta, scrittore, regista, magnifico disegnatore e inoltre organizzatore di cultura nel nome del migliore modernismo francese, un volume antologico che desse conto di una sua ulteriore facoltà: quella del critico d’arte.     

Compagno di strada dei migliori talenti dell’avanguardia parigina, il precoce letterato ed artista si è dunque distinto anche come non meno precoce commentatore delle opere di pittori e scultori di varie epoche, secondo registri eterodossi. A conferma di una tradizione molto francese che vede scrittori e poeti impegnati nell’agire da battistrada o esegeti dei loro amici artisti. Quasi a conferma di quell’aforisma di Lichtenberg, secondo il quale, più o meno, agli specialisti sfugge quasi sempre il meglio.

Il geniale dilettante Cocteau trova sempre la parola azzeccata, la metafora ardita ma esplicativa, la similitudine spiazzante, anche perché, senza essere appunto uno specialista, ne sa, conosce cose e circostanze, ha occhio, sa giudicare le opere, assistito da una cultura vasta e flessibile, capace di collegare mediante una scrittura sintetica, talvolta addirittura spiccia, animata da immagini verbali inedite, tenute sotto controllo in una sequenza logica: Modigliani, Jacques Émile Blanche, Dérain, Fernand Léger, De Chirico, Boldini, Matisse, Cézanne, Picasso fino a El Greco e Watteau, ma non manca persino Coco Chanel. Sono questi alcuni protagonisti scrutinati dall’indisciplinato Accademico di Francia.

Quale dialogo sarebbe stato possibile fra due acrobatici maestri della prosa quali Jean Cocteau e il nostro Roberto Longhi?

Osservando i marmi bianchi della Tholos di Delfi

  • Pagine168
  • Prezzo20.00
  • Anno2023
  • ISBN978-88-8273-190-8
  • NoteVita delle forme 19
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Osservando i marmi bianchi della Tholos di Delfi Perchè sono crollati i templi greci

L’autore prende spunto dalla suggestiva scenografia delle antiche rovine di Delfi osservando i marmi della Tholos di Atena Pronaia. La vicenda è quella che ha segnato la tradizione di uno dei monumenti più emblematici dell’architettura occidentale: dalla magnificenza della sua oscura e celebrata origine progettuale, al suo millenario e rovinoso abbandono, fino a una ritrovata attualità nella storia dell’arte e nella scienza del costruire.

Le osservazioni investigative condotte dall’autore con i soli strumenti del progetto, palesano le tracce di una testimonianza ancora avvolta nell’ambiguità dei troppi enigmi irrisolti. Dalle indagini emerge una sequenza di fatti, rilievi e riscontri che aprono un confronto interdisciplinare tra la ricerca spaziale e costruttiva tipiche dell’architettura contemporanea e le analisi proprie dell’archeologia. Come? Quando? Perché sono crollati i templi ellenici? E come può tutto ciò essere fonte di innovative proposte?

Più che dare una risposta questo libro vuole evidenziare l’urgenza che tali domande pongono, indagando le circostanze storiche e tecniche di un’intramontabile icona dell’architettura universale, nell’intento di svelarne le radici razionali ed i sottesi dispositivi progettuali.

 

Attilio Pizzigoni è architetto ed è stato professore associato di Composizione architettonica e urbana all’Università di Bergamo. Fra i suoi progetti di architettura si ricordano le Case di Mozzo, progettate con Aldo Rossi, la Casa Margiotta (1982/86), il nuovo foyer del Teatro Donizetti (1990), la sede dell’Azienda Trasporti di Bergamo (1995).

Per la Christian Marinotti Edizioni ha scritto: Ingegneri e Archistar. Dialogo sul moderno costruire fra miti e mode (2011),  La città ostile. Realtà dell’architettura urbana nelle sue contraddizioni storiche (2017) e ha curato i volumi: L’immaginazione costruttiva di Peter Rice (2012) e Spiritualità e conoscenza nel lavoro dell’ingegnere di Arturo Danusso (2014). Sempre per la Marinotti Edizioni dirige la collana «Biblioteca di Ingegneria creativa».

La città ostile

  • Pagine120
  • Prezzo12.00
  • Anno2017
  • ISBN978-88-8273-165-6
  • NoteVia delle forme 18
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La città ostile Realtà dell'architettura urbana nelle sue contraddizioni storiche

Questo libro di Attilio Pizzigoni è attraversato da qualche interessante e cruciale paradosso: anzitutto il ragionare sulla canonica e non pacificata dialettica  città-metropoli (e pure megalopoli) su cui aleggiano le ombre di Georg Simmel, Max Weber e Heinrich Tessenow, da un osservatorio fortemente caratterizzato e non ostile come Bergamo, una delle più belle e spettacolari città di provincia italiane. Una  di quelle che pertengono alla dimensione territoriale e storica dell’antica civiltà italiana e che nelle pagine di due grandi storici dell’arte - Francesco Arcangeli e Andrea Emiliani – hanno trovato mirabile ricordanza novecentesca, nel nome di un moderno, necessario e forse disperante umanesimo.

Altro il mondo che oggi si impone a chi, come Pizzigoni, architetto, ma anche uomo di cultura e docente universitario, deve confrontarsi con temi della contemporaneità che impongono più eccitanti riferimenti e cronache differenti. Sempre paradossalmente, i saperi del Pizzigoni, rogersianamente homme de lettres, allievo nel Politecnico milanese di Mario De Micheli e bastantemente prossimo ad Aldo Rossi per non averne dimenticato il capitale L’architettura della città, hanno trovato intelligente e non serena sintesi nelle pagine problematiche e interrogative del presente saggio. Esse si confrontano con quelle di altri autori, prevalentemente anglosassoni ma pure francesi e anche con altri strumenti che concorrono al dialogo fra architettura e ingegneria. Ciò nel nome di un’idea di progetto e di ricerca di forma che tenga conto di condizioni di Luogo, di Spazio e di Tempo, cui si deve addirittura l’esistenza di un’architettura atopica alla quale corrispondono abitatori di identità debole, segnata soprattutto dalla funzione del consumare pervasivo, che tuttavia non riesce a sopprimere del tutto ciò che rende tale un cittadino.

Le dottrine si confrontano e la deterritorializzazione è fenomeno in atto o forse solo preteso oppure profetizzato qualche decennio fa (No stop city) nel nome di qualche utopia radicale. E allora sociologia e geografia, matematiche e informatiche, non che teorie dei frattali. Ma il destino del paesaggio reclama attenzione, con memoria di stagioni pregresse che Pizzigoni sa leggere mediante aggiornati strumenti critici, concludendo nel nome di una visione etica e minimamente ironica e malinconica con il gustoso ingorgo narrativo de Il fiume perduto, che poi sarebbe un Morla alquanto modesto ma a Bergamo decisivo. Anche questo è Genius Loci.        Gianni Contessi

 

 

Attilio Pizzigoni, architetto,  nato 1947 a Bergamo, dove è docente di Composizione architettonica e urbana. Fra i suoi progetti di architettura si ricordano le Case di Mozzo, progettate con Aldo Rossi, la Casa Margiotta (1982/86), il nuovo foyer del Teatro Donizetti (1990), la sede dell’Azienda Trasporti di Bergamo (1995). Ha scritto diversi libri tra cui: Ingegneri e Archistar. Dialogo sul moderno costruire fra miti e mode (Marinotti 2011) e sempre per l’editore Marinotti cura la collana “Biblioteca di Ingegneria creativa”, accogliendo testi che affrontano il rapporto interdisciplinare tra ingegneria e architettura (Peter Rice, Danusso).

                                                                                                         

 

La storia dell'arte

  • Pagine250
  • Prezzo25.00
  • Anno2014
  • ISBN978-88-8273-145-8
  • NoteVita delle forme 17
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La storia dell'arte nelle esperienze e nei ricordi di un suo cultore

Ancora una volta, dopo scrittori e saggisti di sensibilità difforme e al di fuori del revival, pure nostalgico, di qualche decennio fa, è data l’occasione di rinnovare l’interesse per qualche aspetto del tema Grande Vienna, sulla base delle testimonianze di chi, in quella già gloriosa capitale imperiale, visse ed operò prima e dopo la catastrofe del 1918. L’anniversario della cui preparazione, del resto, è appena iniziato in questo poco sereno 2014. È Julius Ritter von Schlosser-Magnino (1866-1938), dopo Wickhoff, Riegl e Dvořák, l’ultimo maestro di un aspetto della cultura, la storia dell’arte, non  privilegiato nelle più classiche ed autorevoli ricostruzioni storiche della realtà e del mito di cui, nel tempo, la capitale asburgica è divenuta oggetto e soggetto.
Grande umanista di confine si potrebbe definire lo Schlosser, il cui libro - memorando e ben noto agli specialisti, ma forse dimenticato rispetto all’ineludibile La letteratura artistica - viene riproposto accompagnato da uno scritto autorevole di Artur Rosenauer, maestro di quella insigne Scuola universitaria e di Sandro Scarrocchia, il più originale interprete italiano di quella stessa realtà accademica e culturale. Umanista di confine, si diceva, per essere l’autore di questa prima rievocazione, italianizzante per discendenza materna, per interessi di studio, convinta professione di fede nell’estetica di Benedetto Croce e devota frequentazione amicale con il filosofo “napoletano”. Del resto, la prima ed ultima edizione italiana di questa importante opera (1936) si dovette a Croce.
Il libro di Schlosser è il ritratto duale di una cultura viennese tedesca e nel contempo partecipe di un mondo multinazionale in una fase storica che vede il modificarsi e l’esaurirsi dello scientismo positivista e le nuove aperture formulate da un Croce, nel 1902-1903 estetologo d’avanguardia. Al lettore smaliziato e non fazioso, allo studente desideroso di sapere come andarono veramente le cose si raccomanda la lettura di questo saggio, parte del quale è dedicata a preziosi medaglioni biografici e critici.

 

Etiche dell'intenzione

  • Pagine176
  • Prezzo18.00
  • Anno2014
  • ISBN978-88-8273-146-5
  • NoteVita delle forme n.16
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Etiche dell'intenzione Ideologia e linguaggi nell'architettura italiana

Dall'osservatorio decentrato ma prospetticamente illuminante dell'Officina torinese, Giovanni Durbiano, noto come non compiacente chiosatore degli intrecci fra politica e cultura che hanno condizionato gli architetti italiani, propone un saggio acuminato, originale e anticonformista. Sin dalla copertina spiazzante ed estranea all'iconografia disciplinare, Durbiano ci invita ad esaminare gli aspetti retrostanti alle vulgate storiografiche e critiche che, nel tempo, hanno sviato il giudizio su questa o quella scuola di pensiero, a volte riconducibile a precise istituzioni universitarie, a questa o quella geografia, nella fattispecie, molto milanese, sebbene all'origine dei temi trattati vi sia la questione del realismo che il vecchio Partito Comunista elabora essenzialmente a Roma, sotto la guida del torinese Palmiro Togliatti.
È la misura dell'autorialità, applicabile ad un'arte pubblica come l'architettura, il tema portante di questo libro, un tema che l'autore applica alle sorti dell'intera architettura italiana fra i tardi anni Cinquanta e i primi Ottanta. Sono i piemontesi Gabetti, Isola e Raineri, i milanesi Guido Canella, Aldo Rossi e Giorgio Grassi, il triestino di Venezia Luciano Semerani e il romano Carlo Aymonino alcuni fra i titolari della narrazione critica di Durbiano. Il passaggio dall'impegno proiettato sulla e nella società all'eterodossia borghese delle frequentazioni e dei prelievi eruditi che, fino alla metà degli anni Sessanta, trova il suo strumento di dibattito e comunicazione nella Casabella di Rogers, negli anni successivi - si pensi a Controspazio e Contropiano - prende altre strade molto disciplinari e meno ideologiche (soprattutto a Venezia) proponendo suggestive commistioni fra architettura e corpora letterari o filosofici centroeuropee, fecondate da un Massimo Cacciari allora ermetico analista di pagine viennesi.
Osservatore partecipe ma distaccato, Durbiano non soggiace a modelli interpretativi precostituiti e si propone di individuare le ragioni di un'autenticità non in posa, capace di smascherare debolezze e mistificazioni di un establishment politico culturale che, partito da Gramsci, si è trovato a fare i conti con altri, non meno grandi maestri, segnati da quell'idea di Crisi che l'Ortodossia (anche nella Torino editorialmente e gloriosamente einaudiana) aveva svalutato. All'intensa appendice Giovanni Durbiano affida, con ironia amara, il bilancio storico
di una vicenda che, probabilmente, ha dissipato una generazione.

                                                                                                        G. C.

Giovanni Durbiano fa l’architetto e insegna progettazione architettonica: due attività che in Italia hanno poco in comune.  Il libro ricostruisce le radici culturali di questa paradossale separazione.

Ingegneri e Archistar

  • Pagine112
  • Prezzo12.00
  • Anno2011
  • ISBN978-88-8273-122-9
  • NoteVita delle forme n.15
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Ingegneri e Archistar Dialogo sul moderno costruire fra miti e mode

L’architetto e l’ingegnere: due figure complementari e, talvolta, in storico contrasto. Figura del mondo dell’arte l’uno; di quello della tecnica l’altro, almeno secondo l’opinione comune. Addetto all’involucro della costruzione e dunque alla sua immagine il primo; progettista delle strutture, dunque di ciò che non si vede all’esterno, il secondo. Come nei dialoghi di Platone, ma anche in quelli di Giovan Battista Piranesi e nel rarefatto Eupalinos di Paul Valéry, Attilio Pizzigoni, architetto da decenni protagonista di un non marginale, propositivo radicamento nella piccola, nobile patria bergamasca, dopo i volumi monografici su Brunelleschi e Le Corbusier e quello su Aldo Rossi, si confronta oggi con un nodo cruciale e quanto mai attuale della cultura del progetto che impone una riconsiderazione della figura e del ruolo dell’ingegnere, già soggetto paradigmatico del XIX secolo e, talvolta, del XX. Verità della costruzione e bellezza della forma storicamente erano i valori di un’architettura pensata secondo i canoni della Geometria. Oggi piuttosto agisce un’ideologia dell’Utile fondata sull’impiego di tecnologie flessibili da tempo proiettate oltre i dogmi del Movimento moderno. “Far cantare i punti di appoggio” diceva lo stesso Le Corbusier che ingegnere non era, ma che da allievo di Auguste Perret, maestro del cemento armato, si era cimentato con le ragioni di una costruzione intesa come struttura e di un’utilità fattasi, finalmente, moderna bellezza. Culture diverse quelle con cui nel XXI secolo si confrontano le vistose imprese acrobatiche degli architetti di grido, i cosiddetti archistar che, grazie all’uso di tracciati grafici, eseguiti con il computer, osano immaginare qualsiasi tipo di ardimento, fatto salvo il momento della verifica o semplicemente dell’intervento decisivo dell’ingegnere con le sue equazioni matematiche, capaci di dominare trazioni e compressioni. L’unità architettura-ingegneria, antico fattore identitario di un solo soggetto, appare adesso un traguardo da raggiungere nei rispettivi campi disciplinari: più arte agli ingegneri, più scienza agli architetti, ed altro ancora che Pizzigoni s’incarica di chiarire con linguaggio accattivante e precisione di riferimenti. G.C.

​Attilio Pizzigoni, allievo di Aldo Rossi al Politecnico di Milano, è docente di composizione architettonica presso la Facoltà di Ingegneria della Università di Bergamo. Architetto, critico e storico dell’arte ha pubblicato numerosi articoli e alcuni libri tra cui: Immagine/Idea (Pescara 1986), Brunelleschi (Zanichelli, 1989), Le Corbusier (Rimini 1992), Il fiore azzurro (Bergamo 2000). Una raccolta di alcune sue lezioni universitarie è pubblicata in L'Architettura dell’Architettura - Aldo Rossi e il primato della realtà (Bergamo 2007).

Oltre il Cubismo

  • Pagine104
  • Prezzo10.00
  • Anno2011
  • ISBN978-88-8273-120-5
  • NoteVita delle forme n.14
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Oltre il Cubismo

Dopo e oltre il Cubismo: dall’incontro fatalmente casuale (nello studio del grande architetto Auguste Perret) fra un giovane, agiato pittore parigino di qualche notorietà, che tra l’altro ha dato vita alla rivista L’Elan, Amédée Ozenfant (1886-1966), ed un altrettanto giovane architetto svizzero di scarsa notorietà, Charles-Edouard Jeanneret (1887-1965), emigrato a Parigi l’anno prima, nel 1918 nasce uno dei più importanti ma meno frequentati manifesti dell’avanguardia artistica novecentesca, Après le Cubisme. Sarà l’origine del Purismo, meno cruciale ma non poco significativa declinazione dei linguaggi moderni della pittura fatta di chiarezza e precisione. Essa darà i suoi frutti più clamorosi di lì a qualche anno, quando lo svizzero Jeanneret, finalmente denominatosi Le Corbusier, anche attraverso la rivista L’Esprit Nouveau, fondata e condotta con lo stesso Ozenfant, realizzerà le costruzioni paradigmatiche di un razionalismo radicale, chiaro e preciso, divenute ben presto universalmente proverbiali quanto il nome del loro autore. Fortune diverse quelle dei due protagonisti di un’esperienza pittorica relativamente circoscritta e tuttavia intensa e affascinante, così francese, così parigina e così prossima a quel mondo degli oggetti che ritroviamo in tante opere di Braque, Picasso, Gris, Severini, Léger, e naturalmente di Ozenfant e Jeanneret. Vere e suggestive icone della Modernità.

Le Corbusier (1887-1965), pseudonimo di Charles-Edouard Jeanneret, svizzero di origine ma cittadino francese, è stato pittore e scultore, ma è noto soprattutto per la sua opera architettonica, che ne ha fatto uno dei più grandi progettisti di tutti i tempi.

​Amédée Ozenfant (1886-1966), pittore francese, nel 1918 diede vita, con Le Corbusier, alla tendenza denominata Purismo e, nel 1920, alla rivista L’Esprit Nouveau.

Architetti italiani nel Novecento

  • Pagine352
  • Prezzo28.50
  • Anno2010
  • ISBN978-88-8273-108-3
  • NoteVita delle forme n.13
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Architetti italiani nel Novecento

Grazie ai saperi dell’erudito e all’intelligenza dello storico che non teme di proporre inquadramenti di lunga gittata e a quella del critico che bene intende significato e ruolo dei protagonisti dell’architettura italiana del Novecento e delle loro opere, Guido Canella, uno dei maestri della nostra cultura del progetto, attraverso queste pagine ricche di notazioni acute, capaci di cogliere il disegno complessivo e l’interazione fra circostanze specifiche di poetica, di stile e di luogo e intenzioni riferibili a tendenze generali, ai tempi della storia, consegna a colleghi, studenti non sviati dalla ricezione passiva di mode e stereotipi del divismo architettonico moderno, e lettori impegnati, un’attesa, ricca selezione dei suoi saggi più rappresentativi, scritti entro un arco di trent’anni. Con i suoi studi Canella affianca e addirittura integra, pure nel nome di interpretazioni talvolta ideologiche, politiche insomma, tuttavia tanto libere quanto oggettive quelle dei più accreditati e mitizzati critici e storici di professione, attivi tra settima e ottava decade dell’altro secolo. E Canella vuole ed è, per certo, architetto progettista, ma, nondimeno (da allievo di Ernesto Rogers), intellettuale versato nella riflessione critica alla quale applica uno sguardo non breve, come è attestato in particolare dagli affondi dedicati alle continuità e discontinuità del dopoguerra, affondi che animano il vasto affresco collocato nella prima parte del libro, oppure dalla capacità di trarre un brano di storia patria, anche lombarda, dai medaglioni dedicati così ad un significativo, singolare architetto minore (il Tomaso Buzzi della Scarzuola), come ad altri illustri colleghi e autori canonici (de Finetti, Muzio, Terragni, Gardella, Ridolfi, Samonà…). L’assenza di enfasi, la scrittura nitida, l’esplicita aspirazione alla definizione logica, oggettiva, acculturata e insieme sensibile del ritratto di almeno tre generazioni di architetti vissuti in anni cruciali, fanno di questo libro di Guido Canella una testimonianza preziosa e irrinunciabile. Gi. Con.

Guido Canella (Bucarest 1931 – Milano 2009) è stato uno dei protagonisti più importanti e originali dell’architettura italiana del dopoguerra. Alla pratica di progettista, autore di capolavori riconosciuti degli ultimi decenni, ha sempre affiancato l’insegnamento universitario, la riflessione teorica, l’attività di organizzazione culturale, scrivendo libri e saggi di profonda cultura ed intensità, promuovendo e dirigendo riviste come «Hinterland» e «Zodiac». Nominato Professore Emerito al termine della sua carriera universitaria al Politecnico di Milano nel 2006, nel biennio 2007-2008 è stato Preside dell’Accademia Nazionale di San Luca. Gli scritti qui raccolti compongono un profilo appassionato dell’architettura italiana del Novecento, nei quali spicca la sensibilità interpretativa dell’architetto progettista e docente, restituendo il personalissimo laboratorio poetico di questo maestro dell’architettura italiana.

Ernesto Nathan Rogers

  • Pagine256
  • Prezzo25.00
  • Anno2009
  • ISBN978-88-8273-104-5
  • NoteVita delle forme n.12
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Ernesto Nathan Rogers continuità e contemporaneità

Nell’epoca dei cosiddetti “non luoghi”, della fine della “storia”, delle architetture di consumo prive di radici, indifferentemente esportabili a Dubai o a Milano nel nome di un dopo-modernità disinvoltamente e ripetitivamente declinato da una sorta di jet-set della progettazione al servizio delle multinazionali, giunge adesso questo libro della ispano-venezuelana Eugenia Lopez Reus che ci invita a rivisitare il pensiero del maestro dei maestri dell’architettura italiana del dopoguerra, il triestino Ernesto Nathan Rogers, tra l’altro leggendario direttore della rivista “Casabella”, che Walter Gropius avrebbe voluto suo successore sulla cattedra di Harvard e che, non senza qualche traversia, con difficoltà ne ottenne tardivamente una nel Politecnico milanese. Continuità e contemporaneità sono le categorie critiche fra le quali l’autrice colloca l’azione instancabile di Rogers, tesa a riannodare i fili del dialogo interrotto fra la recente tradizione del Movimento moderno e quella della storia, intesa evidentemente non come ripresa di motivi stilistici ma come dialogo con le preesistenze ambientali, con i centri storici delle città europee e soprattutto italiane dove aveva preso forma e consistenza la tradizione umanistica nella quale il razionalista e modernista Rogers sempre si sarebbe riconosciuto. “Inventare la memoria” è una frase dell’intellettuale triestino che commenta al meglio anche la Torre Velasca, opera paradigmatica e polemica di Rogers e dei suoi sodali dello studio BBPR, testimonianza della dissoluzione necessaria dell’architettura nella città e dunque nella sua storicità. Come avrebbe detto Pier Paolo Pasolini: “Bisogna strappare ai tradizionalisti il monopolio della tradizione”. G.C.

Eugenia López Reus (Caracas, 1961) ha sviluppato la sua attività di ricerca e di docenza presso le università spagnole di Alcalà e di Navarra, la Scuola Tecnica Superiore di Architettura di Barcellona e il Politecnico di Milano. Il suo rapporto privilegiato con l’Italia risale al 1988 quando vinse una borsa di studio per conto del Ministero degli Affari Esteri e del Centro Internazionale di Studi di Architettura “Andrea Palladio”. Campo della sua ricerca è la relazione dell’architettura moderna e contemporanea con la città, il paesaggio e lo spazio pubblico. A questi temi ha dedicato numerosi articoli critici pubblicati su varie riviste. Attualmente insegna progettazione architettonica alla IE University (Segovia).

Promozione delle arti, critica delle forme, tutela delle opere

  • Pagine288
  • Prezzo26.00
  • Anno2009
  • ISBN978-88-8273-096-3
  • NoteVita delle forme n.11
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Promozione delle arti, critica delle forme, tutela delle opere Scritti militanti e rari (1930-1942)

Il volume raccoglie una selezione della produzione critica di Giulio Carlo Argan degli anni Trenta e primi anni Quaranta intorno a tre nuclei tematici: gli scritti su architettura e urbanistica, gli interventi sull’arte contemporanea e la promozione degli artisti, i testi sui metodi e gli strumenti della storia dell’arte e della tutela delle opere (l’insegnamento nella scuola, l’educazione artistica, il restauro, il museo, le esposizioni). Si è voluto in questo modo evidenziare il ruolo svolto dal giovane Argan nel superamento degli stretti confini disciplinari in cui spesso si chiudevano gli storici-filologi dell’arte, intenti prevalentemente all’attribuzione e alla datazione di pitture e sculture del passato. Invece lo studioso torinese, sin dai suoi scritti d’esordio, elabora una lettura formalistica dell’architettura in contrapposizione con le analisi tecniche e tipologiche degli storici-architetti, interviene con scritti di taglio militante sulle più recenti correnti artistiche (dalla presa di posizione sul futurismo, al sostegno al gruppo dei Sei pittori di Torino e poi del gruppo di Corrente), si prodiga per la difesa del patrimonio artistico a ridosso e durante la guerra (collaborando alla stesura della legge di tutela del 1939 e disegnando il progetto fondativo dell’Istituto Centrale del Restauro). In questi scritti emerge la continuità con gli insegnamenti crociani e del suo maestro Lionello Venturi, ma anche la consapevole decisione di non seguire Venturi nell’esilio francese per rimanere alla Direzione generale delle Antichità e Belle Arti, sotto il ministro Giuseppe Bottai, dove gli è possibile prendere posizione nelle polemiche su “archi e colonne” e sui rapporti tra artisti e fascismo, in difesa dell’architettura razionale e dei pittori e scultori meno allineati con le posizioni conservatrici di Ojetti e Farinacci.

​Giulio Carlo Argan (Torino 1909 – Roma 1992) è stato uno tra i maggiori critici d’arte del Novecento. Si forma nell’ambiente culturale gobettiano, studiando all’Università con Lionello Venturi. Nel 1933 entra nell’Amministrazione delle Antichità e Belle Arti, diventando ispettore a Torino, poi a Modena e infine a Roma. Nel dopoguerra approda a una critica di taglio fenomenologico (Walter Gropius e la Bauhaus, 1951; Borromini, 1952; Fra’ Angelico, 1955) ed elabora una nuova interpretazione dell’arte barocca (L’Europa delle capitali, 1964). Nel 1955 inizia l’insegnamento universitario a Palermo e dal 1959 a Roma. Negli anni Sessanta ha un ruolo di primo piano nel dibattito sull’arte moderna. Nel 1968 pubblica la Storia dell’arte italiana, seguita da L’arte moderna 1770-1970. Negli anni 1976-79 è sindaco di Roma e dal 1983 senatore del PCI, dedicandosi soprattutto alla critica della cultura postmoderna e alla difesa del patrimonio artistico.